Adolescente

L’adolescente: un tragico Hulk
Paola Bolgiani

Gli adolescenti amano i supereroi, i quali si dividono grossomodo in tre categorie: gli alieni, che possiedono dei superpoteri in quanto vengono da altri pianeti; coloro che sono divenuti supereroi a causa di una sperimentazione o di un errore scientifico, e infine coloro che sono supereroi in virtù delle strumentazioni tecnologiche che hanno a disposizione. Le tecnologie di cui questi ultimi sono dotati permettono prestazioni formidabili: arrampicarsi, muoversi a velocità impressionante, volare, individuare oggetti o persone al di là dei muri e a distanza incredibile, avere una mira formidabile; diventare microscopici, avere una forza eccezionale e così via. Ovviamente, tutto ciò finalizzato a vincere le sfide che, ogni volta, mettono in pericolo la sopravvivenza del mondo.
Poi abbiamo un’anomalia: Hulk. Hulk è il prodotto di una sperimentazione scientifica, che gli ha conferito dei poteri straordinari, ma ciò che lo rende unico è il fatto che egli non possa controllare la sua trasformazione e, dopo che questa è avvenuta, non sia in grado di controllare né la sua forza e la sua violenza, né coloro contro i quali è diretta. Con il risultato che, invece di combattere per la salvezza dell’umanità, spesso egli fa strage di vittime innocenti.
Hulk è un personaggio tragico. Nella condizione in cui si ritrova “normale”, non è particolarmente prestante né muscoloso, e vive nell’angoscia della prossima trasformazione. Ciò lo porta a cercare delle soluzioni: applicarsi degli strumenti tecnologici finalizzati non al potenziamento delle capacità, bensì a scongiurare tale potenziamento e a tenerlo sotto controllo; oppure isolarsi completamente fino a vivere di stenti lontano da tutti; o ancora dedicarsi agli altri come medico nei luoghi più sfortunati della terra. Alla fine, il povero Hulk, troverà un po’ di pace – ma non completamente – solo attraverso l’amore: la donna amata sarà infatti l’unica che, grazie alla sua voce riuscirà a farsi riconoscere da lui nel momento in cui è trasformato, a placarlo e anche a riportarlo alla normalità, aiutandolo a riprendere le fattezze umane. Non completamente perché ad un certo momento e in una certa situazione, nonostante la presenza della donna amata, qualcosa di quell’eccesso continuerà a sfuggire, costringendo Hulk nuovamente a allontanarsi.
Hulk possiamo prenderlo come l’adolescente, che si trova improvvisamente preda della pulsione che non riesce a controllare e che lo mette in pericolo. Come Hulk, l’adolescente cerca delle strategie per mettersi al riparo, provvisorie, non sempre ottimali e non risolutive: isolarsi, dedicarsi ad attività rivolte agli altri, utilizzare come barriera fra sé e il pericolo che sente gli oggetti tecnologici, ecc.
D’altra parte, ciò che i supereroi ci mostrano, è l’illusione che gli oggetti tecnologici, o comunque, la scienza, siano lo strumento che rende invincibili, eliminando l’impossibile, fino al limite di escludere la morte. In fondo questa è l’illusione che caratterizza la nostra epoca, in cui, come ci insegna Lacan, il connubio fra la scienza e il capitalismo ha prodotto quello che possiamo considerare un cambiamento epocale, introducendo un’epoca, la nostra, che potremmo definire come quella del “senza limiti”.
Ora, come incide questo sui ragazzi in quel momento particolare che è la pubertà, ovvero quel momento della vita che porta in primo piano il corpo e le sue trasformazioni, non solo sul piano dell’immagine, ma anche e soprattutto nella dimensione della pulsionalità, della sessualità che si fa, per il giovane e la giovane, nuovamente e diversamente presente – come Hulk ci mostra a suo modo?
Sappiamo che nelle società tradizionali, un rito accompagnava il passaggio dall’infanzia all’età adulta, segnando nettamente un prima e un dopo. Il rito, che faceva entrare nella comunità degli adulti, consentiva l’accesso alla relazione sessuale, sempre secondo determinati dettami che le regole sociali definivano. Il passaggio dall’infanzia all’età adulta era dunque un momento scandito e predeterminato, e che quello che si doveva fare sia prima che dopo era un po’ come un’autostrada con segnali chiari, divieti espliciti e tappe precise.
Certo, nella nostra cultura già da tempo non esistono più dei riti di passaggio in senso proprio, però possiamo ancora rintracciare in un passato non troppo remoto dei momenti cruciali, caricati dal legame sociale da una forte valenza simbolica che indicano il passaggio dall’infanzia all’età adulta. Possiamo aggiungere inoltre che fino a non moltissimi anni fa anche nella nostra società si delineavano delle strade ben definite lungo le quali il ragazzo e la ragazza si trovavano indirizzati e che davano un indirizzo socialmente condiviso di che cosa fosse il ‘buon uso’ del corpo e della sessualità. Per esempio, era molto chiaro che il ragazzo dovesse interessarsi alle ragazze e viceversa.
Ora la nostra società da questo punto di vista è completamente mutata. Ogni regola che la tradizione e la cultura avevano sedimentato è oggi messa in discussione. Se la società tradizionale poteva definirsi come la società dei limiti, oggi viviamo piuttosto nella società, appunto, del senza limite.
Così, se il discorso organizzato a partire dalla dimensione del limite, introducendo l’interdetto, produceva conflitto e sintomi legati al conflitto, il discorso contemporaneo non introduce alcun limite, anzi spinge sempre più verso il superamento del limite. Se la società tradizionale promuoveva il dovere, il sacrificio, la rinuncia per l’ottenimento di un bene, la società contemporanea invita piuttosto al benessere, al godersi la vita, all’assenza di doveri, alla via più facile per ottenere ciò che si vuole. Ma ciò che ottiene è di rendere tutto questo un imperativo. Nella nostra epoca l’imperativo dominante è: consuma, godi!
L’adolescente oggi è dunque un tragico Hulk, che deve trovare il suo modo di mettere un argine alla pulsione senza l’ausilio di un discorso della tradizione che lo accompagni. E come si vede con Hulk, è in una relazione non anonima che qualcosa può trovare un po’ di pace.

Declinazioni della psicoanalisi nella contemporaneità

Declinazioni della psicoanalisi nella contemporaneità
Rosa Elena Manzetti

Che cosa fa di un incontro, tra qualcuno che rivolge una domanda di analisi e un altro che l’accoglie in quanto psicoanalista, un’analisi?
La permanenza del significante ‘psicoanalisi’, e persino il suo allargarsi a macchia d’olio fino ad utilizzarlo per ogni attività che ricada sotto il nome di psicoterapia, non garantisce per niente la sopravvivenza della teoria e della pratica fondata da Freud e rinnovata da Lacan.
Non dimentichiamo inoltre che, come già al tempo di Freud poi al tempo di Lacan e anche oggi, gli psicoanalisti spesso si lamentano della difficoltà a essere coloro che portano sulla schiena il peso di produrre l’inconscio, sempre più restìo, ribelle a dirsi.
Un tale disagio riguarda da una parte le mutazioni del discorso del padrone nell’epoca in cui viviamo, che produce soggetti essenzialmente risucchiati dal godimento, rispetto ai quali sorge la domanda se siano, e a quali condizioni, analizzabili. Questa questione tocca l’inquietudine rispetto ai sintomi che definiamo nuovi e alle domande, entrambi considerati più refrattari e meno propizi all’entrata nel transfert.
Dall’altra parte, tale disagio apre sull’interrogazione se noi psicoanalisti contemporanei siamo capaci di raggiungere all’orizzonte la soggettività della nostra epoca, come dice Lacan. Se siamo capaci di far posto al dire dell’inconscio in una società che strutturalmente lo rigetta. Se siamo in condizione, noi psicoanalisti, di sostenere un atto tanto solitario e soprattutto non capitalizzabile in termini di godimento, in un mondo in cui non c’è altra causa che il cinismo del proprio godimento.
La psicoanalisi in quanto pratica si fonda sull’ipotesi del senso del sintomo. Supporre che il sintomo di cui soffre un individuo voglia dire qualcosa, che abbia un senso e che questo senso sia accessibile è come supporgli un soggetto e un sapere insaputo ma decifrabile, che permette di liberare un senso sconosciuto.
E’ l’ipotesi dell’inconscio in quanto sapere inconscio che scopre Freud. Da lui in poi l’obiettivo della psicoanalisi è innanzi tutto produrre le condizioni del dire dell’inconscio. Infatti al di là di quello che l’inconscio dice, è innanzi tutto il dire dell’inconscio che è di mira nell’esperienza psicoanalitica. Che l’inconscio si dica determina l’insieme delle associazioni libere, che sono la regola fondamentale dell’analisi.
L’inconscio, scoperto da Freud, è quindi l’inconscio decifrabile, che Lacan condensa nella formula ‘l’inconscio è strutturato come un linguaggio’. Perché questo possa avvenire occorre che l’inconscio dica e che il soggetto possa includersi, accogliere il dire dell’inconscio. Questo è il primo passo fondamentale nella pratica della psicoanalisi. Verificare l’opportunità di produrre le condizioni in cui si attua il dire dell’inconscio.
Ma l’esperienza psicoanalitica non si limita a questo, vale a dire a rivelare il significante rimosso, che agisce al di là del controllo dell’io. La cura analitica è ancora più essenzialmente legata al reale del sintomo, mira quindi all’osso, al nucleo che è causa delle associazioni che provengono dall’inconscio.
Nella direzione di una cura psicoanalitica si tratta per l’analista di poter condurre ciascun analizzante a usare il suo sintomo per raggiungere il reale del sintomo, raggiunto il quale il sintomo non ha più sete di verità. Il reale del sintomo ha sete di verità, quella che il soggetto mette in luce nelle decifrazioni del suo sintomo-metafora, del suo sintomo familiare, del suo sintomo ortodosso. Però per sperare di raggiungere la causa reale del sintomo, tramite la via della verità, occorre fare un uso logico del sintomo e non accontentarsi della verità del sintomo familiare. Un uso non logico del sintomo è quello che si accontenta della verità del sintomo significante, che produce soltanto il suo spostamento. In realtà dopo aver partorito la verità del sintomo occorre che il soggetto arriva al godimento opaco del sintomo che è eterodosso alla sua verità biografica. La verità biografica, significante, del romanzo familiare, non può dire niente, mente sul reale del sintomo. Soltanto rispetto a quel punto eterodosso il soggetto ha una scelta rispetto alla posizione da prendere rispetto al godimento che lo comanda.